Eb 4,14-16; 5,7-9
Le letture bibliche ci introducono oggi alla
contemplazione del mistero di Cristo Servo del Signore ed autentico Agnello
Pasquale che muore sulla croce per la salvezza del mondo.
La prima lettura (Is
52,23-53,12) è l’ultimo dei canti del Servo del Signore nel libro
d’Isaia. Il testo risulta complesso nella sua struttura, nel suo linguaggio e
nell’identificazione storica del personaggio. All’inizio, Dio stesso parla del
suo “servo” come uno che così sfigurato, a causa del dolore vissuto, che “non
aveva apparenza umana” (Is 52,14). Inaspettatamente annuncia che questo stesso
servo sarà glorificato e riconosciuto dalle nazioni e dai re che si
meraviglieranno di fronte ad un fatto inusitato (Is 52,15). Solo nella parte centrale del cantico (Is 53, 1-10)
si raccontano le sue sofferenze: è stato disprezzato e rifiutato dagli uomini
(vv.2-3); lo hanno sottomesso ad un giudizio iniquo, che lui accetta senza
violenza, come agnello portato al macello, come agnello che non apre la bocca
di fronte al tosatore (v.7). La novità del testo è nel fatto che si afferma che
la causa dell’umiliazione della condanna del servo non sono i suoi propri
delitti, ma quelli di coloro i quali lo stanno giudicando (vv. 4.5.9). Molto
più paradossale ancora è il fatto che la sua morte riabiliti non solo lui, che
ingiustamente “fu eliminato dalla terra dei
viventi” (v.8), ma anche chi lo ha condannato (vv.10-12). Ciò non solo forma
parte dei disegni divini (v.10), ma egli stesso volontariamente si è sottomesso
silenziosamente (v.7), ha offerto la sua vita in espiazione (vv.10-11), si è
caricato della colpa di molti ed ha interceduto per i peccatori (v.12).
Il servo incarna il valore redentivo
della sofferenza. E’ molto probabile, in sintonia con l’interpretazione ebraica
tradizionale, che le tribolazioni del Servo facciano riferimento alle prove
vissute da quella parte più povera e innocente d’Israele che soffrì la
prepotenza dei potenti del mondo, durante l’esilio e con la sua fedeltà
collaborò misteriosamente alla realizzazione dei piani divini nel mondo. E’ una
interpretazione questa che ha grande validità, poiché ci ricorda il valore che
possono avere le sofferenze del popolo povero, per la redenzione di tutti e ci
aiuta ad ampliare l’orizzonte della passione di Cristo a tutta la Chiesa, suo
corpo totale. Certamente questo testo influì fortemente nella redazione dei
racconti della passione del Signore nel Nuovo Testamento. Per gli evangelisti,
l’oracolo di Isaia si vede chiarito solamente con l’evento della passione e
della morte di Gesù, per la redenzione di tutti. Tanto l’interpretazione
individuale, come quella collettiva si riferiscono allo stesso mistero del
valore redentivo della sofferenza del giusto e dell’amore sacrificato,
all’interno dei piani di Dio. Il testo, senza dubbio, è un momento culminante
della rivelazione dell’Antico Testamento: la vita, la morte e il ritorno in
vita del Servo sono diventati il mezzo per il perdono dei peccati di tutti.
Abbandonato nelle mani di Dio e rinunciando a ricambiare il male a chi lo
oltraggiava, il Servo ottiene ciò che non avevano potuto ottenere tutti i
sacrifici rituali d’Israele. Tutto ciò che il profeta ha detto del Servo lo
confessiamo pienamente solo di Cristo, nostro Salvatore, Servo sofferente che
con la sua vita, morte e risurrezione ci ha liberato dai nostri peccati.
La seconda lettura (Eb 4,14-16; 5,7-9) ci presenta Gesù come
autentico Sommo Sacerdote, sotto una doppia prospettiva. Da una parte, egli è
il Figlio di Dio, sacerdote per eccellenza, “grande”, che è penetrato
definitivamente nel mondo di Dio, “i cieli”, da dove deriva l’invito a
perseverare nella professione della fede (Eb 4,14). Da un’altra parte, si
insiste nella piena condizione umana di questo sommo sacerdote, che “è stato
provato in tutto come noi, eccetto nel peccato”, da dove deriva l’esortazione
ad avvicinarci con grande fiducia a Dio, per ottenere misericordia e forza nel
momento della prova (Eb 4,15). Cristo, in effetti, si è immerso pienamente nella
condizione umana. Malgrado il suo essere Figlio, non si risparmiò di patire la
sofferenza, ma in mezzo al dolore e all’umiliazione “imparò”, cioè visse ed
attuò la sua estrema fedeltà ed obbedienza, le quali trovarono nella preghiera
la loro fonte ed espressione fondamentale, raggiungendo così la perfezione
suprema della risurrezione e convertendosi in fonte di salvezza per tutti gli
uomini (Eb 5,7-9).
(a) L’arresto nell’orto.
Il racconto comincia in un
giardino (in greco: képos) e termina
in un giardino (19,41). Più di una volta, Giovanni sembra evocare la Genesi:
“In principio…” (Gv 1,1; Gn 1,1); la settimana iniziale del vangelo (Gv 1,29.35.43;
2,1) e la settimana iniziale della creazione (Gn 1); dopo la resurrezione, Gesù
“soffiò” sui discepoli (Gv 20,22), come il Signore nella creazione dell’uomo
(Gn 2,7). Nel leggere la passione di Gesù, Giovanni vuole che pensiamo nel
racconto di una nuova creazione, che scaturirà dal costato aperto del Signore
(cf. 7,39). Nel racconto giovanneo, l’episodio dell’orto è un autentico scontro
tra la luce e le tenebre. Gesù non è sorpreso, anzi si fa innanzi (18,4). Le
tenebre sono rappresentate da Giuda e dai suoi accompagnatori, simboli di tutti
coloro i quali si chiudono alla Verità e alla Luce. Giuda ha preferito le
tenebre alla luce che è venuta nel mondo (cf. 3,19). Quando abbandonò Gesù,
durante la cena, egli entrava nella notte: “Preso
il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (13,30). Ora Giuda ha bisogno di
luce artificiale, poiché ha rifiutato colui che è “la luce del mondo” (8,12).
Se qualcuno cade a terra nell’orto, questi non è Gesù ma i suoi nemici di
fronte alla dichiarazione solenne “Io sono” (18,5). “Io sono” è il Nome di Dio.
Di fronte a dio cadono e retrocedono i suoi nemici. “Siano confusi e coperti di
ignominia quelli che attentano alla mia vita” (Sal 35,4); “Quando mi assalgono
i malvagi per straziarmi la carne, sono essi, avversari e nemici, a inciampare
e cadere” (Sal 27,2). Gesù appare dominando la situazione, con libertà sovrana:
“…io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma
la offro da me stesso” (Gv 10,17b-18). Egli è il Buon Pastore che non abbandona
le sue pecore: “Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (18,8).
E Giovanni annota: “Perché s’adempisse la parola che egli aveva detto: « Non ho
perduto nessuno di quelli che mi hai dato»” (18,9). Gesù aveva detto sue
pecore: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le
rapirà dalla mia mano” (10,28).
(b) Il processo.
Gesù
appare padrone del dramma. Sereno e sovrano. Anche se Pilato pensa che lui,
procuratore romano, ha potere su Gesù, Gesù lo avverte che la sua autorità su
di lui è ricevuta e relativa: “ Tu non
avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto”
(19,11). E’ Gesù che ha il potere. In tutto come un re. Per questo parlerà del
suo regno. L’espressione “…non è di questo mondo” non indica il luogo nel quale
si realizza questo regno, come se il regno di Gesù non avesse niente a che
vedere con la storia umana. Indica invece provenienza (a questo si riferisce la
particella greca ek), qualità. Il
regno di Gesù, cioè, non sorge dal mondo,
non ha il suo fondamento nelle strutture tenebrose del peccato di questo
mondo. Non è come i regni della storia. Il suo regno si basa sulla “Verità”
(19,37: aletheia, che in Giovanni
indica sempre la parola rivelatrice di Gesù). Per entrare nel suo regno, bisogna
accettare la sua Parola. “Chiunque è dalla
verità, ascolta la mia voce” (18,37). Gesù, come Re, non soffre le
umiliazioni e gli scherni che raccontano gli altri evangelisti. Solo parla di
flagelli (19,1) e schiaffi (19,3). Egli appare coronato di spine e con un
mantello di porpora , come un vero re (19,1-3). Di fatto così è salutato dai
soldati: “Salve, re dei Giudei” (19,3). Pilato presenta Gesù alla folla come
“l’Uomo” (19,5). Questo titolo, probabilmente, riflette un antico titolo
cristologico, come quello di “Figlio dell’Uomo”, ma nel dramma giovanneo ha la
funzione di offrire al lettore del vangelo, nel rifiuto di Gesù un esempio di
atto “inumano”. Il potere romano commette un atto inumano per eccellenza e i
giudei, al preferire Cesare (19,15), si chiudono ad ogni speranza messianica.
Sia i romani che i giudei sono giudicati.
(c) La crocifissione.
La crocifissione, nel vangelo di Giovanni, è narrata
attraverso una serie di scene corte, alcune delle quali simili a quelle degli
altri evangelisti, contenendo però una teologia del tutto particolare. In primo
luogo, non appare Simone di Cirene. E’ Gesù stesso che porta la croce (19,17).
“Io offro la mia vita, per poi riprenderla
di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” (10,17b-18). I
quattro vangeli menzionano la scritta sulla croce, in Giovanni però è più che
una semplice scritta. E’ una solenne proclamazione. Pilato aveva presentato
Gesù al suo popolo come re (19,14) ed era stato rifiutato (19,16). Ora, nelle
tre lingue dell’impero, ebraico, latino e greco (19,20), Pilato riafferma la
regalità di Gesù e lo fa con tutta la precisione legale stabilita dalla
normativa dell’impero romano: “Ciò che è scritto, è scritto” (19,22). Malgrado
il rifiuto dei capi religiosi d’Israele, un rappresentante del più grande
potere sulla terra, ha riconosciuto che Gesù è re.
Gli altri vangeli parlano implicitamente della divisione
delle vesti di Gesù, a partire dal Salmo 22,19. Giovanni lo fa, citando
implicitamente il salmo e sottolinea una peculiarità: la tunica era senza
cuciture (19,23). Alcuni hanno visto un’allusione alla tunica senza cuciture
del Sommo Sacerdote, così come la descrive Flavio Giuseppe. Altri, e chi sa se
sia questa l’interpretazione più concorde con la teologia di Giovanni, hanno visto
in essa un simbolo dell’unità. Già nell’Antico Testamento, lo strappare le
vesti simboleggiava la divisione, come in 1Re 11,29-31 viene simboleggiata la
divisione della monarchia. In Giovanni, la tunica senza cuciture, simboleggia
il popolo di Dio che sta intorno a Gesù senza divisione alcuna. Di fatto,
Giovanni aveva segnalato, prima della crocifissione, il fatto che “nacque dissenso tra la gente riguardo a lui”
(7,43; cf. 9,16; 10,19) e ci da una chiave interpretativa della sua morte:
“Gesù andava a morire per la nazione – e non solo per la nazione – ma anche per
riunire in uno i figli di Dio che erano dispersi”. La tunica senza cuciture è,
quindi, simbolo del Popolo Nuovo, convocato sotto la croce di Gesù. E questo
che qui viene espresso simbolicamente, in seguito appare incarnato in alcune
persone concrete, che giocano anche però una funzione simbolica speciale.
Sotto
la croce di Gesù appare convocata simbolicamente la Chiesa (19,25-27),
soprattutto nella persona di “sua Madre” e nel “discepolo che egli amava”. Sono
persone reali, che non interessano però all’evangelista principalmente nella
loro identità storica, ma come “personalità corporative”, a livello simbolico.
Sua Madre è figura di Sion, la parte migliore del popolo di Dio (cf. Is 66,8-9,
in cui Sion – Gerusalemme appare mentre genera i suoi figli). Il discepolo è
invece figura del credente, “il discepolo che Gesù ama”. Ai piedi della croce
nasce la nuova famiglia di Gesù, “sua Madre e i suoi fratelli” (cf. 3,31-35),
“coloro i quali fanno la volontà del Padre”. Il discepolo accoglie la Madre di
Gesù come qualcosa di suo: “Da quell’ora, il discepolo l’accolse tra le sue
cose più preziose” (letteralmente in greco: en
ta idia. Molto più della traduzione: “…nella sua casa”). La Madre del
Signore diventa così parte del tesoro più prezioso del discepolo credente.
Così, ai piedi della croce, assistiamo, secondo Giovanni, alla nascita della
Chiesa.
Ne
sinottici, avvicinano a Gesù in croce una spugna su una canna. Invece, in
Giovanni, con un “issopo” (19,29), che ricorda Es 12,22, nel quale con un
fascio d’issopo si asperse il sangue
dell’Agnello sulle case degli israeliti. Inoltre, fu condannato a morte verso
l’ora sesta del giorno della Preparazione della Pasqua (19,14), nella stessa
ora nella quale, durante la sera della Pasqua, i sacerdoti cominciavano a
sgozzare gli agnelli pasquali nel Tempio. Ancora: non gli spezzano alcun osso
(cf. Es 12,10). Non muore come nei sinottici. La sua è una morte solenne: “E
chinato il capo, spirò” (19,30). Sacrificò totalmente la sua vita, da una
parte. E dall’altra, consegno lo Spirito, fonte di vita, che ci condurrà verso
la verità piena (cf. 16,13). Per Giovanni, qui, sotto la croce, avviene la
glorificazione di Gesù. Non bisogna aspettare la Pentecoste, come in Luca.
Sotto la croce, Gesù è glorificato e dona lo Spirito, che prima non aveva “non
era ancora stato glorificato” (7,39). Lo Spirito è donato a coloro i quali
simboleggiano e formano la Chiesa: sua Madre e il discepolo amato.
A
differenza dei sinottici, in Giovanni, non servono segni cosmici speciali al
morire di Gesù. Tutto si centra nel suo corpo glorificato, autentico santuario
(cf. Gv 2,21: “Egli parlava del tempio del
suo corpo”). Per questo dal suo corpo scaturisce “sangue ed acqua”
(19,34). Il sangue e l’acqua alludono, in primo luogo, al passaggio di Gesù da
questo mondo (sangue) al Padre, attraverso la glorificazione (acqua: cf. 12,23;
13,1). Bisogna però comunque vedere qui un allusione a quelle due realtà per le
quali Cristo glorificato dono lo Spirito alla Comunità: il battesimo (nascere
dall’acqua e dallo Spirito”: Gv 3) e l’eucaristia (“Chi non mangia la mia carne
e non beve il mio sangue…”: Gv 6). Come già aveva annunciato Giovanni: “…fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”
(7,38), vivificando “tutti coloro i quali crederanno in lui” e formando la
comunità che nasceva ai piedi della croce.