SANTA FAMIGLIA

 

“Non sapevate che io debbo stare nella Casa di mio Padre?”

 

Sir 3, 2-6.12-14

Col 3, 12-21

Lc 2, 41-52

 

            La vita di Gesù in una famiglia umana prolunga il mistero dell’incarnazione. Dio ha voluto assumere e santificare il mistero della famiglia, chiamata ad essere spazio d’amore e libertà, di comunione e di esperienza di Dio. La festa della Santa Famiglia di Nazaret è un’opportunità per illuminare la vita delle nostre famiglie alla luce della parola di Dio. La famiglia è un segno d’amore in mezzo ad un mondo tante volte dominato dall’odio e dalla divisione; è anche però una realtà fragile, immersa in una società spesso disorientata rispetto agli autentici valori e vittima tante volte di drammi economici e sociali. La prima lettura e il vangelo fanno riferimento soprattutto al rapporto di amore e di rispetto tra padri e figli; la seconda lettura, invece, è una pagina di etica cristiana che illumina la vita della coppia e l’intero mondo delle relazioni familiari.

 

            La prima lettura (Sir 3, 2-6.12-14) è tratta dal libro del Siracide, conosciuto anche con il nome di Ecclesiaste, per il fatto che esso veniva frequentemente utilizzato nelle assemblee liturgiche (che in lingua greca si chiamavano “ekklesiai”) dei primi secoli cristiani. Il suo autore è un tale Gesù Ben Sira, da cui il nome con cui si conosce questo libro: Sapienza di Ben Sira o Siracide. Il libro è uno dei migliori esempi di letteratura sapienziale giudaica, ed è quasi una sintesi di tutta la teologia del giudaismo in dialogo con una nuova società più sensibile ai valori laici. Fino al 1860 si conosceva di esso solo la versione greca, siriaca e latina. Tra questa data e il 1900, comunque, in un luogo nel quale si conservano manoscritti inutilizzabili del Cairo, vennero ritrovate alcune copie medievali dell’originale ebraico del libro. Successive scoperte ci hanno permesso di conoscere i due terzi del Siracide in ebraico, ripartiti in cinque manoscritti.

            Il testo che leggiamo oggi è un commento appassionato del quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti da il Signore, tuo Dio” (Es 20,12). Per Gesù Ben Sirà l’amore e il rispetto verso i genitori formano parte delle virtù fondamentali della sapienza. Il verbo centrale di tutto il testo è il verbo “onorare” o “dare onore”, presente nel Decalogo e che indica amore, aiuto concreto e rispetto e la cui ricompensa sarà la benedizione divina. E’ importante però comprendere che alla radice del quarto comandamento si trova questo concetto: i genitori, all’interno della tradizione giudaica, sono i primi trasmettitori dei valori più alti dell’umanità e della religiosità. Essi sono chiamati, attraverso la loro parola e il loro esempio, ad introdurre il figlio nella corrente di benedizione della religione del Signore. Questa è la prima ragione per la quale il figlio israelita “onora” i suoi genitori. In altre parole, i genitori ottengono “onore” da parte dei loro figli, in quanto sacramenti vivi dell’amore di Dio, trasmettitori della benedizione e maestri di saggezza.

     “Onorare” i genitori, in fondo, significa “onorare” Dio stesso e accettare attraverso di essi la benedizione e la saggezza che viene dall’Altissimo. L’onorare il padre e la madre suppone affetto e aiuto, rispetto e amore verso i propri genitori, anche nel tramonto della loro vita, durante la loro vecchiaia, quando le energie biologiche ed intellettuali diminuiscono. Il padre e la madre saranno sempre un segno vivo dell’amore e della vita di Dio nel mondo.

 

La seconda lettura (Col 3, 12-21) ci offre un classico codice etico, condizionato certamente da alcuni valori culturali dell’epoca, come si può vedere chiaramente nell’accettazione della schiavitù (cf. 3,22) o nell’affermazione della sottomissione delle mogli ai mariti (cf. 3,18). Trasferire meccanicamente, quindi, alcune delle sue indicazioni all’ordine sociale dei nostri giorni è un anacronismo ed un errore. Il testo ci offre una morale squisitamente cristiana, valida sempre per illuminare i rapporti tra i fratelli nella fede (3, 12-17) e l’intera vita familiare (3, 18-21). L’etica proposta si potrebbe riassumere con l’affermazione del v.13: “Come il Signore vi ha perdonato così fate anche voi”.

Il fondamento di tutta l’esistenza cristiana deve essere sempre l’amore e il perdono ispirati a Gesù. E’ ciò che il testo chiama “la pace di Cristo” (v.15), la quale deve presiedere sempre nel cuore, cioè nel centro più profondo delle motivazioni e dei sentimenti del credente. Per questo è necessario che “la parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente” (v.16). Solo l’ascolto, la meditazione orante e la celebrazione della Parola vanno configurando la condotta del cristiano, cosicché sia possibile per lui raggiungere quell’ideale della morale cristiana che il testo riassume così: “Tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (v.17). Nell’ambito familiare (3, 18-21) le esigenze etiche sono le stesse. Alla luce della loro fede in Cristo gli sposi credenti si amano intensamente e vivono una profonda relazione di affetto e di comunione, basata sul dialogo e sul rispetto reciproco (3, 18-19); i figli sono chiamati a vivere il valore dell’obbedienza “nel Signore”, attraverso l’ascolto e la docilità alla voce dei loro genitori (3,20); allo stesso tempo i genitori rispettino e accompagnino il mistero personale che ogni figlio racchiude in sé (3,21).

 

Il vangelo (Lc 2, 41-52) ci presenta il famoso episodio dello “smarrimento e del ritrovamento” di Gesù nel Tempio all’età di dodici anni. Il racconto è una perla di riflessione teologica sul mistero di Gesù. E’ la prima volta che nel vangelo di Luca il giovane Gesù manifesta la propria personalità teologica sotto due aspetti: la straordinaria e precoce sapienza e il suo rapporto filiale con il Padre del cielo. Nella lettura del testo bisogna evitare un’interpretazione psicologica che vede nel dramma narrato, nella preoccupazione della madre e nella risposta di Gesù, un’anticipazione della crisi generazionale della famiglia moderna. Non si tratta di un racconto biografico, né di un racconto edificante (leggenda), ma di una narrazione “teologica”, centrata sulla prima parola che ascoltiamo da parte di Gesù nel vangelo, una parola che rivela il rapporto unico che egli ha con dio e la sua obbedienza filiale al Padre.

Luca non si sofferma sui dettagli narrativi (smarrimento del Bambino, i tre giorni della ricerca, ecc.), poiché essi sono soli artifici letterari al servizio del messaggio religioso del testo. Il centro dell’interesse della narrazione inizia al v.16, quando Gesù appare “nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava”, secondo lo stile della domanda-risposta che era proprio dell’insegnamento religioso del giudaismo. Gesù appare come uno che è assiduo ed interessato nell’ascoltare le cose di Dio. Nel v.47 l’ottica narrativa cambia. Ora Gesù non solo ascolta, ma come maestro espone e risponde, “ e tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. Luca vede in questa scena un’anticipazione del futuro ministero di Gesù, allorquando il suo insegnamento “autorevole” causerà stupore tra la folla (cf. Lc 4,32).

Il dialogo del giovane Gesù con Maria sua madre è d’un grande spessore teologico. E’ necessario evitare una spiegazione dello stupore e del successivo “rimprovero” di Maria da un punto di vista psicologico. L’incomprensione di Maria e di Giuseppe rappresentano la reazione naturale di chi s’incontra di fronte ad un fatto che supera le aspettative e la comprensione umana. La fede di Maria e di Giuseppe, come la fede di ogni autentico credente, si vede superata sempre da una realtà insondabile del mistero di Dio. Non bisogna dimenticare ciò che Gesù affermerà successivamente: “nessuno conosce chi è il Figlio, se non il Padre” ((Lc 10,22). Nel “rimprovero” di Maria (v.48) si intuisce certamente l’angustia normale di un genitore di fronte al figlio perduto; la risposta di Gesù però (v. 49a: “Perché mi cercavate?”) obbliga i suoi genitori ( e i lettori del vangelo) a superare il problema dei rapporti naturali di sangue, per entrare nella logica del mistero e delle vie di Dio.

La frase centrale di tutto il racconto è pronunciata da Gesù nel v.49b: “Non sapevate che io debbo stare nella Casa di mio Padre?” (o secondo la traduzione della Cei: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”). E’ preferibile la prima opzione che parla della “Casa di mio Padre”, poiché sottolinea la vicinanza tra Gesù e Dio. Il tempio era, in effetti, lo spazio della presenza di Dio e il luogo nel quale veniva insegnata la Parola di Dio. Per Luca, la sapienza di Gesù in mezzo ai dottori e il suo ammirabile insegnamento trovano il loro fondamento nella sua origine divina, nel suo rapporto filiale con Dio. La scena si conclude con l’incomprensione dei genitori di Gesù (v.50). L’affermazione ha una funzione letteraria, più che storica. E’ un invito alla meditazione e all’accettazione nella fede del mistero di Gesù di Nazaret, che la scena del Tempio ha lasciato intravedere.

Ai dodici anni, che secondo la legge giudaica era l’età in cui ogni giovane ebreo acquisiva la responsabilità di fronte alla Legge e alla religione (il momento della bar – mitzvah, espressione che significa: “figlio del precetto”), Gesù rivela la sua autentica realtà di Maestro e di Figlio, prendendo le distanze dalla realtà limitata e quotidiana della sua condizione umana. E’ la prima rivelazione che Gesù fa della sua persona e del suo destino, e l’autentico credente, come Maria sua madre, anche senza comprendere tutto, “serba tutte queste cose nel suo cuore” meditandole (Lc 2,51; Lc 2,19). Maria capisce che anche per lei comincia il faticoso cammino della fede. Una fede che le farà scoprire il mistero nascosto in quel giovane figlio suo e che le permetterà di rinunciare a lui come possesso personale per riceverlo come dono salvifico di Dio ai piedi della croce.

L’esperienza di Maria è l’esperienza di ogni padre di famiglia, che deve accettare nel figlio un progetto che non gli appartiene, il progetto nuovo e libero di una persona distinta, che non è possibile possedere totalmente e alla quale i genitori non potranno imporre un destino prestabilito. L’esperienza di Maria però è soprattutto l’esperienza del credente che sa incontrare Gesù “nella Casa del Padre”, cioè come Sacramento della sapienza e della presenza di Dio tra noi. Un’esperienza che ogni famiglia è chiamata a vivere, convertendosi in piccola “chiesa domestica”, nella quale ogni figlio, educato nella fede nei grandi valori della solidarietà umana, possa crescere “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52), sul modello dell’adolescente Gesù di Nazaret.