La
vita di Gesù in una famiglia umana prolunga il mistero dell’incarnazione. Dio
ha voluto assumere e santificare il mistero della famiglia, chiamata ad essere
spazio d’amore e libertà, di comunione e di esperienza di Dio. La festa della
Santa Famiglia di Nazaret è un’opportunità per illuminare la vita delle nostre famiglie alla luce della parola di Dio. La famiglia è un segno d’amore
in mezzo ad un mondo tante volte dominato dall’odio e dalla divisione; è anche
però una realtà fragile, immersa in una società spesso disorientata rispetto
agli autentici valori e vittima tante volte di drammi economici e sociali. La
prima lettura e il vangelo fanno riferimento soprattutto al rapporto di amore e
di rispetto tra padri e figli; la seconda lettura, invece, è una pagina di
etica cristiana che illumina la vita della coppia e l’intero mondo delle
relazioni familiari.
La prima lettura
(Sir 3, 2-6.12-14) è tratta dal libro del
Siracide, conosciuto anche con il nome di Ecclesiaste, per il fatto che esso veniva
frequentemente utilizzato nelle assemblee liturgiche (che in lingua greca si
chiamavano “ekklesiai”) dei primi secoli cristiani. Il suo autore è un tale
Gesù Ben Sira, da cui il nome con cui si conosce questo libro: Sapienza di Ben
Sira o Siracide. Il libro è uno dei migliori esempi di letteratura sapienziale
giudaica, ed è quasi una sintesi di tutta la teologia del giudaismo in dialogo
con una nuova società più sensibile ai valori laici. Fino al 1860 si conosceva
di esso solo la versione greca, siriaca e latina. Tra questa data e il 1900,
comunque, in un luogo nel quale si conservano manoscritti inutilizzabili del Cairo,
vennero ritrovate alcune copie medievali dell’originale ebraico del libro.
Successive scoperte ci hanno permesso di conoscere i due terzi del Siracide in ebraico,
ripartiti in cinque manoscritti.
Il testo che leggiamo oggi è un commento appassionato del quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti da il Signore, tuo Dio” (Es 20,12). Per Gesù Ben Sirà l’amore e il rispetto verso i genitori formano parte delle virtù fondamentali della sapienza. Il verbo centrale di tutto il testo è il verbo “onorare” o “dare onore”, presente nel Decalogo e che indica amore, aiuto concreto e rispetto e la cui ricompensa sarà la benedizione divina. E’ importante però comprendere che alla radice del quarto comandamento si trova questo concetto: i genitori, all’interno della tradizione giudaica, sono i primi trasmettitori dei valori più alti dell’umanità e della religiosità. Essi sono chiamati, attraverso la loro parola e il loro esempio, ad introdurre il figlio nella corrente di benedizione della religione del Signore. Questa è la prima ragione per la quale il figlio israelita “onora” i suoi genitori. In altre parole, i genitori ottengono “onore” da parte dei loro figli, in quanto sacramenti vivi dell’amore di Dio, trasmettitori della benedizione e maestri di saggezza.
“Onorare” i genitori, in fondo, significa “onorare”
Dio stesso e accettare attraverso di essi la benedizione e la saggezza che
viene dall’Altissimo. L’onorare il padre
e la madre suppone affetto e aiuto, rispetto e amore verso i propri
genitori, anche nel tramonto della loro vita, durante la loro vecchiaia, quando le energie
biologiche ed intellettuali diminuiscono. Il padre e la madre saranno sempre un
segno vivo dell’amore e della vita di Dio nel mondo.
Il vangelo (Lc
2, 41-52) ci presenta il famoso episodio dello “smarrimento e del
ritrovamento” di Gesù nel Tempio all’età di dodici anni. Il racconto è una
perla di riflessione teologica sul mistero di Gesù. E’ la prima volta che nel
vangelo di Luca il giovane Gesù manifesta la propria personalità teologica
sotto due aspetti: la straordinaria e precoce sapienza e il suo rapporto
filiale con il Padre del cielo. Nella lettura del testo bisogna evitare un’interpretazione
psicologica che vede nel dramma narrato, nella preoccupazione della madre e
nella risposta di Gesù, un’anticipazione della crisi generazionale della
famiglia moderna. Non si tratta di un racconto biografico, né di un racconto
edificante (leggenda), ma di una narrazione “teologica”, centrata sulla prima
parola che ascoltiamo da parte di Gesù nel vangelo, una parola che rivela il
rapporto unico che egli ha con dio e la sua obbedienza filiale al Padre.
Luca non si sofferma sui
dettagli narrativi (smarrimento del Bambino, i tre giorni della ricerca, ecc.),
poiché essi sono soli artifici letterari al servizio del messaggio religioso
del testo. Il centro dell’interesse della narrazione inizia al v.16, quando Gesù appare “nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li
interrogava”, secondo lo stile della domanda-risposta che era proprio dell’insegnamento
religioso del giudaismo. Gesù appare come uno che è assiduo ed interessato nell’ascoltare
le cose di Dio. Nel v.47 l’ottica narrativa cambia. Ora Gesù non solo ascolta,
ma come maestro espone e risponde, “ e tutti quelli che l’udivano erano pieni
di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. Luca vede in questa
scena un’anticipazione del futuro ministero di Gesù, allorquando il suo
insegnamento “autorevole” causerà stupore tra la folla (cf. Lc 4,32).
Il dialogo del giovane Gesù
con Maria sua madre è d’un grande spessore teologico. E’ necessario evitare una
spiegazione dello stupore e del successivo “rimprovero” di Maria da un punto di
vista psicologico. L’incomprensione
di Maria e di Giuseppe rappresentano la reazione naturale di chi s’incontra di
fronte ad un fatto che supera le aspettative e la comprensione umana. La fede
di Maria e di Giuseppe, come la fede di ogni autentico credente, si vede
superata sempre da una realtà insondabile del mistero di Dio. Non bisogna
dimenticare ciò che Gesù affermerà successivamente: “nessuno conosce chi è il
Figlio, se non il Padre” ((Lc 10,22). Nel “rimprovero” di Maria (v.48) si
intuisce certamente l’angustia normale di un genitore di fronte al figlio
perduto; la risposta di Gesù però (v. 49a: “Perché mi cercavate?”) obbliga i
suoi genitori ( e i lettori del vangelo) a superare il problema dei rapporti
naturali di sangue, per entrare nella logica del mistero e delle vie di Dio.
La frase centrale di tutto
il racconto è pronunciata da Gesù nel v.49b: “Non sapevate che io debbo stare
nella Casa di mio Padre?” (o secondo la traduzione della Cei: “Non sapevate che
io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”). E’ preferibile la prima opzione
che parla della “Casa di mio Padre”, poiché sottolinea la vicinanza tra Gesù e
Dio. Il tempio era, in effetti, lo spazio della presenza di Dio e il luogo nel
quale veniva insegnata la Parola di Dio. Per Luca, la sapienza di Gesù in mezzo
ai dottori e il suo ammirabile insegnamento trovano il loro fondamento nella sua
origine divina, nel suo rapporto filiale con Dio. La scena si conclude con l’incomprensione
dei genitori di Gesù (v.50). L’affermazione ha una funzione letteraria, più che
storica. E’ un invito alla meditazione e all’accettazione nella fede del
mistero di Gesù di Nazaret, che la scena del Tempio ha lasciato intravedere.
Ai dodici anni, che secondo
la legge giudaica era l’età in cui ogni giovane ebreo acquisiva la
responsabilità di fronte alla Legge e alla religione (il momento della bar – mitzvah, espressione che
significa: “figlio del precetto”), Gesù rivela la sua autentica realtà di
Maestro e di Figlio, prendendo le distanze dalla realtà limitata e quotidiana
della sua condizione umana. E’ la prima rivelazione che Gesù fa della sua
persona e del suo destino, e l’autentico credente, come Maria sua madre, anche
senza comprendere tutto, “serba tutte queste cose nel suo cuore” meditandole
(Lc 2,51; Lc 2,19). Maria capisce che anche per lei comincia il faticoso
cammino della fede. Una fede che le farà scoprire il mistero nascosto in quel
giovane figlio suo e che le permetterà di rinunciare a lui come possesso
personale per riceverlo come dono salvifico di Dio ai piedi della croce.
L’esperienza di Maria è l’esperienza
di ogni padre di famiglia, che deve accettare nel figlio un progetto che non
gli appartiene, il progetto nuovo e libero di una persona distinta, che non è
possibile possedere totalmente e alla quale i genitori non potranno imporre un
destino prestabilito. L’esperienza di Maria però è soprattutto l’esperienza del
credente che sa incontrare Gesù “nella Casa del Padre”, cioè come Sacramento
della sapienza e della presenza di Dio tra noi. Un’esperienza che ogni famiglia
è chiamata a vivere, convertendosi in piccola “chiesa domestica”, nella quale
ogni figlio, educato nella fede nei grandi valori della solidarietà umana,
possa crescere “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc
2,52), sul modello dell’adolescente Gesù di Nazaret.