Tempo Ordinario - Ciclo B
2Cor 4,6-11
Le
letture bibliche di questa domenica presentano Gesù come maestro di libertà e
autentico interprete delle scritture e delle tradizioni d’Israele. Di fronte
alla religiosità legalista e rituale dei farisei, Gesù proclama, come valore
supremo dell’esperienza spirituale, il bene dell’uomo. Nelle due scende del
vangelo di oggi, egli restituisce al sabato il suo valore autentico e
originale, inteso cioè come giorno di gioia e di libertà, come tempo di riposo
e di comunione con Dio e con gli altri. La gioia libertà con la quale Gesù e i
discepoli vivono il giorno sacro del sabato insegna che è più importante
accorrere in aiuto dell’uomo bisognoso, che compiere un precetto religioso. Gesù
non colloca al centro del sabato le prescrizioni rituali, ma l’uomo che
attraverso questo giorno santo ha l’opportunità di rincontrarsi con se stesso e
con Dio.
La prima lettura
(Dt 5,12-15) è tratta dalla redazione
deuteronomistica del testo del Decalogo e si riferisce al comandamento che
ordina il riposo sabbatico. Dio separa i giorni dell’uomo in due parti: sei
giorni per il lavoro e un giorno per la
gioia e il riposo. La santificazione del sabato consiste in renderlo diverso
dagli altri giorni della settimana. In questo giorno, l’israelita “sacrifica”
l’opera delle sue mani, e così riceve, nell’atto stesso della rinunzia, la
pienezza di vita che viene dal Signore. Dio per la santificazione del sabato
non esige da Israele nessuna opera concreta, bensì “non fare lavoro alcuno”. Gli chiede la rinuncia di ogni opera, frutto
della sua fatica e del suo sforzo, per andare più in là delle proprie opere. In
un certo modo con il riposo sabbatico, l’israelita rifiuta qualsiasi tipo
d’idolatria, che non è niente altro che il voler produrre la salvezza con le
proprie mani, e al tempo stesso proclama che la vita piena viene solo dal
Signore. Il sabato è un tempo nel quale l’uomo, attraverso il “non fare”, si
pone in un ambito di gratuità assoluta per entrare in comunione con il Dio che
sta oltre ogni opera e ogni creatura.
Inoltre, il sabato è un giorno “simbolico”, una specie di
ricordo settimanale, nel quale, attraverso il “non fare”, il popolo di dio
rivive l’esperienza gioiosa della liberazione dalla schiavitù. Ogni
generazione, osservando il riposo sabbatico, assume liberamente l’atto salvante
che Dio produsse nel passato. Perciò, in questo giorno, l’uomo gode il dono di
Dio, liberando dalla schiavitù tutti quelli che vivono con lui: figli, schiavi,
animali, stranieri, ecc.: “Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e
che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio
teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato” (Dt
5,15). Il sabato l’israelita dona agli altri quello che gratuitamente egli
stesso ha ricevuto da Dio: la liberazione e la vita. In questo giorno tutti gli
uomini sono uguali, chiamati a gioire del perdono e della salvezza, della libertà e della gioia, del benessere e della pace. E’ questo l’autentico
significato dello “shabbat” biblico. E’ un tempo nel quale ogni uomo,
sottomesso a qualsiasi tipo di schiavitù, è chiamato a vivere e gioire
dell’unico dono che la vita da a tutti: la salvezza di Dio. Il sabato è l’esodo
settimanale d’Israele.
La seconda lettura (2Cor
4,6-11) presenta il mistero della vita e della morte che è presente
nell’esistenza e nella missione dell’apostolo. La fede che l’evangelizzatore
vive e annuncia simile alla luce, la prima opera della creazione di Dio (Gn
1,3). Con la luce della fede in Cristo, che Dio fa brillare nel cuore del
credente, inizia nuova e definitiva creazione. “ E Dio che disse: Rifulga la luce dalle
tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della
gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (v.6). L’apostolo è chiamato a proclamare questa fede, per mezzo della
sua missione evangelizzatrice, segnato dalla croce e dalla resurrezione di
Cristo, vivendo contemporaneamente l’umiliazione e la gloria del Signore.
L’immagine che Paolo utilizza, per esprimere questo mistero dell’apostolo, è
molto suggestiva: “Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta” (v.7).
L’apostolo è un uomo, fragile e limitato, che soffre le sue proprie debolezze e
insicurezze che molte volte tocca il limite del fallimento e della morte. Porta
dentro di sé, comunque, un mistero di vita e di pienezza, portando dovunque
l’ammirabile tesoro della Pasqua di Cristo che lo ha marcato per sempre. Questo
uomo, che soffre i limiti della precarietà umana e corre continuamente il
rischio di cadere a terra abbattuto e sconfitto, è santuario della presenza di
Cristo che salva per mezzo della sofferenza e della morte. Paolo lo afferma
convinto: “…portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù,
perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (v.10). La
sofferenza dell’apostolo, i suoi apparenti fallimenti, e finanche la sua morte
fisica, generano una vita che non si esaurisce, per se stesso e per gli altri.
Con ragione Paolo può dire ai Corinzi: “…in noi opera la morte, ma in voi la
vita” (v.12).
Il vangelo (Mc 2,23-3,6) di oggi è un racconto composto da due
scene: la prima si sviluppa in mezzo ai campi di grano, lo spazio del lavoro e
della fatica umana; l’altra, nella sinagoga, lo spazio sacro riservato al culto
e nel quale si conservano gelosamente le tradizioni religiose. In ambedue i
casi, Gesù affronta il fariseismo legalista della sua epoca, ridando allo
“shabbat” biblico il suo senso originario, inteso cioè come giorno di libertà e
di gioia al servizio dell’uomo. Alcune correnti religiose del tempo di Gesù
avevano trasformato il sabato in un tempo di schiavitù e di osservanza rituale
oppressiva nei confronti dell’uomo; un
tempo slegato dalla vita quotidiana del popolo. Alcuni scritti giudaici avevano
fatto una lista di quasi 40 proibizioni legati al sabato (non si poteva
accendere il fuoco, non si poteva cucinare, bisognava digiunare, si poteva
percorrere solo una certa distanza stabilita, ecc.). Gesù, in linea con
l’antica predicazione profetica che proclamava l’unità inseparabile tra il
culto e la vita, restituisce al culto sabbatico il suo autentico valore. Per
lui, è un tempo di salvezza nel quale viene risaltato con maggiore forza il
potere liberatore di Dio, e nel quale l’uomo liberato da Dio manifesta la sua
propria fede nell’amore.
Nella
prima scena (in mezzo ai campi di grano:
Mc 2,23-27) i discepoli di Gesù che strappano le spighe per mangiare, sono
accusati dai farisei di violare il riposo del sabato. Gesù, come autentico interprete
delle antiche scritture d’Israele, si serve di una scena della vita di Davide
per giustificare la condotta dei suoi. Gesù dà al sabato il suo vero senso con
l’aiuto della Bibbia. Egli legge la Scrittura per illuminare la vita, scoprendo
il suo senso più profondo e facendolo in chiave di liberazione. Nel caso di
Davide si dimostrò che il bisogno umano era più importante della legge sacra
dei pani consacrati riservati ai sacerdoti (1Sam 21,2-7); anche ora vale lo
stesso principio: la fame, la necessità dei discepoli è più importante di
qualsiasi legge religiosa. Per Gesù, l’uomo affamato non può essere disatteso e
ignorato, ma aiutato opportunamente e maggiormente nel giorno dello “shabbat”
nel quale si celebrava la liberazione dalla schiavitù: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!” (v.27).
Gesù è il “Figlio dell’Uomo” che riscatta l’uomo dal legalismo e lo colloca,
come nel piano originario della creazione, nel centro del progetto salvifico di
Dio. Gesù è l’uomo che rivela la verità più profonda dell’uomo. Egli va oltre
gli schemi legalistici del giudaismo della sua epoca, dimostrando che “…il
Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (v.27).
Nella seconda scena, nella
sinagoga,
Gesù sana un uomo che ha una mano atrofizzata (3,1-6). Gesù pone una domanda
incisiva: “E` lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una
vita o toglierla?” (v.4). Le sue parole ricordano la fondamentale decisione
etica della legge: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la
morte e il male… Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”
(Dt 30,15.19). Per Gesù, l’uomo infermo deve trovare la salute e la
consolazione, soprattutto il giorno di sabato nel quale si ricordano i grandi
benefici ricevuti da Dio. La decisone etica della legge si concretizza
chiaramente nell’aiuto al prossimo bisognoso: un’azione che supera qualsiasi
legge o istituzione religiosa, e inoltre è superiore all’interpretazione
legalista e inumana che del giorno del sabato facevano i farisei. I farisei
sacrificano l’uomo all’istituzione; Gesù pone la persona umana al centro e
proclama con il suo agire che l’istituzione deve essere sempre al servizio
dell’uomo. I nemici di Gesù, che lo stanno accerchiando per avere un motivo per
accusarlo, reagiscono con un silenzio ostinato. Marco la chiama “durezza di
cuore” (che traduce l’espressione greca: pôrôsis tēs kardías; che
negli altri testi lo stesso evangelista chiama anche: sklērokardía: Mc
10,15; 16,14). E’ l’ostinazione dell’uomo che si chiude coscientemente e
orgogliosamente a dio e al bene, incapace di ascoltare e di aprirsi alla novità
della salvezza. Paolo parla della pôrôsis, “indurimento”,
di una parte di Israele (Rm 11,25) e la lettera agli Efesini si riferisce alla pôrôsis, “indurimento, testardaggine”
di coloro i quali vivono “accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio
a causa dell’ignoranza che è in loro” (Ef 4,18). Nel vangelo di oggi la durezza
di cuore dei farisei e degli erodiani sfocia nella decisione di uccidere Gesù.
La durezza di cuore provoca l’ira di
Gesù (il testo greco usa il termine orgē con il quale, nel Nuovo
Testamento, si indica “l’ira divina”) [v.5]. Dio non tollera tale atteggiamento
dei farisei. Come dice Paolo: “l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni
empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia”
(Rm 1,18).
I testi di oggi sono un invito
all’autentica esperienza religiosa, che la comunità vive con Dio nella gioia e
nella libertà e pone il bene dell’uomo come norma suprema di condotta.
L’atteggiamento di Gesù in rapporto al sabato giudaico ci deve portare a
riconsiderare la nostra liturgia domenicale del giorno del Signore, liberandola
dalla semplice etichetta di precetto o di obbligazione legale. La domenica,
giorno dell’incontro con Dio e con i fratelli, dovrebbe illuminare tutta la
settimana e tutto il nostro agire, senza che resti isolato in una serie di riti
e atti sacri esteriori. La domenica, il nostro “shabbat” cristiano, è il giorno
dell’esodo settimanale, allorquando passiamo con Cristo dalla morte alla vita,
facendo che periodicamente rinasca con forza l’amore a dio e ai fratelli, al
contatto con la Parola e i sacramenti.