La parabola del figlio prodigo: Lc 15,11-32
Il vangelo (Lc 15,1-3.11-32)
ci mette di fronte al mistero della misericordia del Padre, per mezzo di questa
opera maestra di Luca che è la "parabola
del Padre prodigo di amore e di perdono". In essa si narra
l'esperienza della riconciliazione dell'uomo con un Dio che "non vuole la
morte del peccatore, ma che si converta e viva" (Ez 18,23). Gesù ha
raccontato la parabola per dar ragione del suo comportamento con i peccatori.
Mentre i farisei e i maestri della legge si mantengono a distanza dai peccatori
per fedeltà alla Legge (si veda per esempio ciò che dice Es 23,1; Sal 1,1;
26,5), Gesù va con loro, e con loro mangia e bene e fa festa (Lc 15,1-3). Ciò
che colpisce in maestri della legge non è che Gesù parli del perdono che viene
offerto al peccatore pentito. Molti testi dell'Antico Testamento, infatti, parlano
del perdono divino. Ciò che sorprende radicalmente è la forma in cui Gesù
agisce. Egli invece di condannare come fecero Giona e Giovanni Battista per
esempio, o esigere sacrifici rituali per la purificazione come facevano i sacerdoti,
mangia e beve con i peccatori, gli accoglie e apre loro un orizzonte nuovo di
vita e di speranza. Questo è ciò che la parabola vuole descrivere; il suo
obiettivo primario è mostrare fin a dove arriva la misericordia di questo Dio
che Gesù chiama "Padre"; una misericordia che si riflette e si fa
concreta nella condotta di Gesù di fronte ai peccatori. Il racconto
inizia con il figlio minore che chiede la parte di eredità che gli spetta e se
ne va di casa (v.12). Si tratta di un fatto legale, attraverso il quale il
figlio esercita un suo diritto (Dt 21,15-17). Luca non insiste tanto nelle
motivazioni per il quale il figlio se ne va di casa, né nella moralità o nella
legalità della richiesta dell'eredità. Nel racconto ciò che interessa di più è
sapere che il figlio fece cattivo uso di quella ricchezza e che giunse ad una
situazione limite di miseria e di morte a causa sua: "...sperperò le sue
sostanze vivendo da dissoluto" (v.13). Egli è il responsabile di ciò che
gli succede, riceve ciò che egli stesso si è andato a cercare. La carestia che
colpisce quella regione in cui si era ritrovato complica di più la sua
situazione ed è allora quando cerca di fare qualcosa, fino ad arrivare a
desiderare di mangiare "le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno
gliene dava" (v.16). Allora riflette: "Quanti salariati in casa di
mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da
mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non
sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi
garzoni" (vv.17-19). E' servito molto inchiostro per presentare la riflessione del figlio minore come modello di pentimento. Leggendo, però, attentamente il testo, in questo monologo vi è poco di pentimento e di confessione del male commesso e molto di calcolo e interesse. In realtà egli vuole ritornare per mangiare come i garzoni della casa di suo padre. Nel migliore dei casi, le sue parole sono ambigue e lasciano insoddisfatti coloro i quali si aspettavano una conversione e un pentimento seri della sua vita così disordinata. Il narratore ha voluto lasciare i lettori con i loro dubbi, circa la retta intenzione del figlio che ritorna. Precisamente qui è il punto centrale del paradosso della parabola. Il narratore non si fa illusione con certi discorsi di conversione, e in nessun caso vuole proporre come modello di pentimento questo figlio che non ritorna né mosso dall'amore per il padre, né confessando umilmente i suoi errori. La parabola non vuole descrivere l'itinerario di una conversione, ma presentare la sorprendente reazione del padre, quando il figlio ritorna e la forma in cui interpreta questo suo ritorno a casa. Quando
già è vicino a casa, "il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli
si gettò al collo e lo baciò" (v.20). Il figlio, che ha preparato con
attenzione il suo discorso, comincia a parlare ma non termina. Il suo
discorsetto rimane incompleto. E questo è importante. Il narratore della
parabola vuole insistere nel fatto che il padre non ha bisogno delle candide parole
che il figlio ha preparato per correre, abbracciarlo e baciarlo. Non sono le
parole del figlio che determinano la condotta del padre. In questo momento la
figura del padre riempie tutta la scena. Il contrasto è fortissimo, tra l'atteggiamento
calcolatore del figlio e l'amore incommensurabile del padre. Il padre, dice il
testo, "si commosse" (in greco: splangnízomai,
"commuoversi delle viscere materne"). La tenerezza del padre ha la
sua origine nel più profondo del suo essere. Il padre è tenerezza. Non si dice
niente delle reazioni del figlio, in quanto a questo punto interessano poco. Tutta
l'attenzione del lettore si deve centrare nella figura di un padre fuori del comune,
eccezionalmente misericordioso ed eccessivamente tenero e amoroso. Un padre che
non ha aspettato il grido di pentimento del figlio per correre e abbracciarlo e
baciarlo. Infatti, la parabola non si propone di descrivere ciò che significa
essere figlio, ma vuole rivelare fino a dove arriva la paternità di Dio. Il figlio
minore non solo trova da mangiare, ""come uno dei garzoni di suo
padre", ma torna ad avere tutto con eccesso: anello, sandali, festa...
Tutto è frutto della gioia paterna. Una gioia che ha una sola spiegazione, una
spiegazione che nella parabola giustamente è il padre che la dà: "Questo
mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato" (v.24). Il padre non pronuncia mai la parola
"peccato". Più che alla offesa ricevuta con l'allontanamento del
figlio, pensa alle conseguenze che ciò ha provocato per suo figlio, pensa nella
morte che minacciava di privarlo di questo suo figlio. Il discorso del padre
non fa nemmeno assolutamente allusione alle motivazioni ambigue che spinsero il
figlio a tornare. Per il padre ciò che conta è solo che il figlio ormai è lì,
che lo ha recuperato e che ora potrà vivere e gioire insieme a lui. In realtà,
il padre non ripudiò mai il figlio, in quanto la filiazione non stava
condizionata dai suoi meriti. Per il padre il passato del figlio non conta, e
nemmeno il futuro. Non lo giudica per quello che ha fatto, né esige da lui
niente in cambio. Ciò che conta è la vita del figlio. Ora egli vive, insieme al
padre; lontano da lui, "morirebbe di fame". La
parabola si conclude facendo allusione al "figlio maggiore", che non
abbandonò mai la casa e che quando ritornò il fratello, stava precisamente
lavorando nei campi del padre (v.25). La festa che celebra il ritorno del
figlio minore è cominciata quando il maggiore ancora è nel campo. La festa è
stata organizzata esclusivamente dal padre; ha la sua origine e il suo
senso nella misericordia del padre. Al figlio
maggiore rimane solamente la scelta di unirsi a quella festa o rifiutarsi
d'entrarvi, a secondo se accetti o no la decisione misericordiosa del padre. Il
figlio maggiore, tuttavia, pensa solo in se stesso. Egli è l'unico punto di
riferimento. Riassume la sua condotta descrivendo una vita esemplare; fedele sì
ma si esprime con termini di schiavitù: "Ecco, io ti servo da tanti anni e
non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per
far festa con i miei amici" (v.29). Il
figlio maggiore, che rappresenta gli scribi e i farisei che ringraziavano Dio
"per non essere come gli altri", fa resistenza ad entrare nella casa
per celebrare. Il padre, tuttavia, "allora uscì a pregarlo" (v.28).
Uscì a cercare il maggiore così come era uscito per aspettare il minore. Il
padre non rifiuta nemmeno questo figlio; lo invita, però, a superare la logica
della retribuzione; a non interpretare la sua esistenza di figlio in chiave di
remunerazione e di paga: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è
mio è tuo" (v.31). Il padre della parabola torna come colui che da tutto,
senza misura, senza calcolo di nessun tipo. Essere padre significa condividere
tutto con i propri figli. Egli, però, rispetta anche il figlio maggiore. Così
come non obbligò il minore a non andarsene da casa, nemmeno obbliga il maggiore
ad entrare e partecipare alla festa.
Questa
parabola racconta una storia universale, nella quale tutti possiamo
riconoscerci e nella quale tutte le parole parlano della tenerezza e
dell'immenso amore del Padre. Tutti siamo invitati a partecipare dell'amore del
Padre: i lontani, tornando alla casa paterna e recuperando la gioia della vita
autentica; gli orgogliosi e i soddisfatti di se stessi che giudicano gli altri,
entrando nella casa per vivere la gioia dell'amore del Padre e rallegrandosi
del perdono offerto gratuitamente a tutti. Non sappiamo se il figlio minore
restò per sempre nella casa. Non sappiamo nemmeno se il maggiore si decise ad
entrare e condividere la gioia del padre. Sono queste domande a cui ogni
lettore del vangelo deve rispondere con la propria vita.
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