Messa della notte
Is 9, 1-3.5-6
Tt 2, 11-14
Lc 2, 1-14
La prima lettura (Is 9, 1-3.5-6) è un canto di gioia e di speranza che
scaturisce dal cuore di un popolo che mentre “camminava nelle tenebre”, “ha visto una grande luce” (v. 1). Il poema d’Isaia fa riferimento ad
un gruppo umano che ha sofferto l’angoscia, la fame, la violenza della guerra e
l’ingiustizia (Is 8, 23), e che invece trova ora dei motivi per rallegrarsi e
per sperare. Il noto contrasto biblico tra “luce” e “tenebre” serve per
esprimere questo cambiamento radicale nell’orizzonte storico del popolo. La luce è
la prima opera della creazione, la creatura primogenita di Dio (Gen
1, 3). Essa è immagine della vita e della salvezza che viene da Dio: “E’ in te
la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce” (Sal 36, 10). Essa è
come la veste di Dio, espressione della sua dignità e del suo potere salvatore:
“Ti rivesti di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto” (Sal
104, 1-2). La luce rivela il mistero di Dio in maniera particolare: “Dio è
luce, e in lui non ci sono tenebre” (1Gv 1, 5). E dirà Gesù: “Io sono la luce
del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre” (Gv 8, 12). Il testo
d’Isaia parla d’“una grande luce”, una luce che simboleggia la salvezza e la
pace: doni che vengono da Dio e che trasformano l’oscuro orizzonte d’un popolo
oppresso. Appaiono, insieme alla luce, diversi termini che evocano la
gioia: “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia” (v. 2). La
luce-liberazione che Dio offre produce nel popolo una gioia speciale. La luce
evoca l’azione salvatrice di Dio; la gioia ricorda la risposta dell’uomo che
sperimenta la pace e la salvezza.
Il testo del profeta offre tre ragioni che giustificano tanta gioia (vv. 3-5): (a) Dio ha fatto sparire il tiranno e l’oppressore (“hai spezzato il giogo che pesava su di essi”), (b) non c’è più nessun residuo di guerra o di violenza (“ogni calzatura di soldato nella mischia e ogni mantello macchiato di sangue sarà bruciato”), (c) un personaggio misterioso appare nell’orizzonte della storia portando nuove speranze (“un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”). Quest’ultima affermazione è di grande importanza nel poema e ha bisogno di essere spiegata. Isaia non parla della nascita di un bambino, ma dell’ascesa al trono d’un nuovo re. Lui utilizza lo stesso linguaggio della corte che troviamo in molti testi monarchici dell’antico Egitto per parlare d’un nuovo sovrano. Le sue parole evocano il rito d’intronizzazione del re d’Israele, il quale era adottato da Iahvè come suo figlio il giorno dell’incoronazione. Ricordiamo soltanto il Salmo 2, il quale rappresenta una liturgia d’intronizzazione: “Io l’ho costituito mio sovrano, sul Sion mio santo monte… Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti, e in dominio i confini della terra” (Sal 2, 6-8).
Il popolo gioisce perché assieme alle nuove prospettive di pace e di
liberazione (fine della guerra, assenza d’ogni potere oppressore e tirannico) accede
al trono un sovrano che suscita grandi aspettative. Probabilmente Isaia parla del
re Ezechia, in cui il popolo mise molte speranze. Questo è il senso dei titoli
di cui si parla in seguito: “consigliere ammirabile” (capace di fare progetti
straordinari e di portarli avanti), “Dio potente” (uomo docile e aperto all’onnipotenza
di Dio il quale lo ha preso in adozione come suo figlio e desidera manifestarsi
per mezzo suo), “Padre per sempre” (un re che come padre provvidente si prenda
cura del benessere del suo popolo), “Principe della pace” (un governatore che
usi la sua capacità e il suo potere politico per promuovere e conservare la
pace). Il profeta sa che questo significa sognare molto e sa che soltanto Dio potrà
portare a compimento un simile ideale.
Il testo d’Isaia aiuta a rileggere
il mistero del Natale in chiave di giustizia e di salvezza, al di là del sentimentalismo
e del romanticismo. Il poema celebra la promessa fatta da Dio a Davide, ma in
proporzioni sovrumane. Ciò che canta il profeta oltrepassa quello che si può
dire dei re successori di Davide. Soltanto in Cristo Gesù, Messia e Salvatore,
si realizza in pienezza quest’oracolo; lui è il Figlio amato dal Padre, al
quale Dio ha voluto dare “il trono di Davide suo padre”, perché “regni per
sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non abbia fine” (Lc 1, 32-33).
Prima di Gesù, questo testo fu solamente speranza e ansia, ideale incompiuto ma
creduto e desiderato. Un grido dell’uomo e dell’umanità, un annunzio ed una
preparazione. La notte di Natale noi possiamo dire con ragione: “Un bambino è
nato per noi, ci è stato dato un figlio”. Il Bambino di Betlemme ha portato il
regno di Dio, regno di giustizia e di pace, di verità e di luce per tutti gli
uomini. Una nuova avventura di luce e di gioia comincia con lui per l’umanità.
Diceva san Bernardo commentando questo testo d’Isaia e applicandolo a Cristo: “Ammirabile
nella nascita, consigliere nella predicazione, Dio nel perdono, forte nella
passione, padre dell’era futura nella risurrezione, principe della pace nella
felicità eterna”.
La seconda lettura (Tt 2, 11-14) costituisce una sorta di professione di
fede dell’antica comunità cristiana. Il testo parla del mistero cristiano come
una “epifania”. Ciò che era nascosto è stata rivelato: “La grazia di Dio apportatrice
di salvezza per tutti gli uomini” (v. 11). L’umanità intera è chiamata ad
aprirsi al dono della vita in Cristo Gesù (v. 12) e ad attendere ancora un’altra
“epifania”, “la manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore
Gesù Cristo” (v. 13). Il cristianesimo non è una semplice religione: è l’esperienza
di un’epifania costante. Il Bambino porta la grazia e la
salvezza nella notte di Betlemme, anticipando un'altra notte, quell'ultima, quando il Messia apparirà nella
gloria per inaugurare il nuovo cielo e la nuova terra per tutti gli uomini. Incarnazione,
Pasqua e ritorno del Signore nella gloria si uniscono oggi in un solo mistero.
Un mistero di vita e di grazia che ci riempie di gioia e di speranza.
Il vangelo (Lc
2, 1-14) è il racconto della nascita di Gesù. Un testo che coniuga
magistralmente narrazione e teologia, storia e contemplazione. Gesù nasce nella
storia degli uomini (v. 1), ma nella città di Davide (1Sam 16, 1-13), a
Betlemme di Giuda (v. 4). Lui è uomo come tutti gli altri, ma è il Messia e il
Signore, la cui nascita è compimento delle antiche profezie. Gesù nasce povero fra
i poveri. Maria e Giuseppe non trovano un luogo degno nella casa per lui: “Non
c’era posto per loro nell’albergo” (v. 7). La situazione è d’emarginazione e
di povertà. Il Bambino, infatti, nasce in una mangiatoia, in un posto che serviva
alle bestie per mangiare (Lc 13, 15). L’evangelista Luca ripete questo dato
per tre volte (vv. 7.12.16). La sua insistenza vuole rilevare la povertà e l’emarginazione
in cui nasce il Figlio di Dio, condividendo dal primo istante le condizioni
drammatiche di così tanti uomini e donne di questo mondo che vivono nell’estrema
povertà. E' aggiunge un dettaglio: Maria “diede alla luce il suo figlio e lo
avvolse in fasce” (v. 7). La frase è stata scelta con cura. Nel libro della
Sapienza si descrive con quelle parole la nascita del re Salomone (Sap 7, 4).
L'evangelista vuole esprimere la cura amorosa di Maria e la condizione umana e reale
del Bambino.
La seconda parte del
racconto si sviluppa all’aperto, in mezzo alla campagna, dove alcuni poveri
pastori custodivano i loro greggi (vv. 8-14). Anche qui il testo sottolinea l’ambiente
di povertà della nascita di Gesù. I primi destinatari della notizia sono dei
poveri pastori, disprezzati nella società di quel tempo perché, a causa del suo
mestiere, diventavano incapaci di osservare la legge e le condizioni di purezza
che essa imponeva. Proprio a loro, persone emarginate e disprezzate dalla società
e dalla religione, si rivolge Dio. Due elementi sono importanti nel racconto: l’angelo
del Signore e la luce. Due simboli della presenza divina e della sua azione
salvatrice. L’angelo, poiché messaggero dal cielo, proclama un annunzio (in
greco: euaggelízomai), una notizia
che non è soltanto buona o bella, ma che ha la forza di cambiare chi la riceve.
Un vero atto evangelizzatore. Il cielo annunzia il vangelo alla terra, e così
comincia in Luca la storia dell’evangelizzazione, la quale dovrà raggiungere
tutti i popoli. Dice l’angelo: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia,
che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore,
che è il Cristo Signore” (vv. 10-11). La notizia è accompagnata da un canto
intonato dall'esercito celeste, cioè tutti gli astri dell'universo: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama!”. Il cielo offre anche l’interpretazione
del fatto. La nascita del Bambino è manifestazione della gloria (ebraico: kabód, greco: dóxa) divina, cioè, del suo potere salvatore in favore degli
uomini, e il suo frutto è la pace, lo shalom
biblico, che racchiude tutti i beni della vita e la felicità dell’uomo.
Il ricordo della nascita di
Gesù dev’essere letto e meditato alla luce della Pasqua. Il Bambino che nasce a
Betlemme è il Messia-Re, che proclama e fa presente il regno di Dio per mezzo
della sua parola, della sua vita e sopra tutto con la sua morte e la sua
risurrezione. La festa di Natale ci mette davanti alla scelta di Dio per i
poveri e i semplici. La lieta notizia di questa notte è rivolta a chi, come
Maria, come Giuseppe, come i pastori, vivono aperti a Dio, come la loro unica
ricchezza. “Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio!” (Lc 6, 20). La
notte santa della nascita di Gesù c’invita ad accogliere l’immenso amore del
Padre che ci ha dato il suo Figlio (Gv 3, 16). Che la pace messianica,
annunziata dai profeti (Is 2, 1-5; 11, 6-9) e realizzata da Gesù di Nazaret in
favore dei poveri di questo mondo (Lc 4, 18-19), arrivi a noi e radichi nei
nostri cuori (Ef 3, 17). Oggi, che “si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore
nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 3, 4), proclamiamo con gioia la nostra fede e la nostra speranza
nel Dio che cammina con noi e c’invita a trasformare questo mondo con la forza
dell’amore.